Fake news, fratture sociali e la resurrezione di Tito

Nel 1994 il Maresciallo Tito, deceduto da quattordici anni, camminava per le strade di Belgrado. La gente che lo notava si riuniva attorno a lui; alcuni, con aria festante, gli porgevano fiori e gli raccontavano dei propri problemi, altri lo rimproveravano per la situazione politica difficile in cui versava la Serbia negli ultimi anni. Alcune donne gli dicevano di aver pianto molto al suo funerale, un uomo gli disse:

“Eri tutto per noi, ci scaldavi come un sole”.

Josip Broz, noto come Maresciallo Tito, Presidente della Jugoslavia 1939-1980

Un tizio lo accusò di essere un serbofobo e un bandito, un altro gli disse che nonostante egli fosse croato aveva tutta la sua ammirazione. Un altro ancora si fermò a spiegargli come funzionasse ora il sistema, dal momento che la Jugoslavia era stata sostituita dalle repubbliche indipendenti.

Oggi saremmo abituati a una scena del genere, molti film hanno ripreso questo stile, da Lui è tornato (Er ist wieder da, David Wnendt, 2015) a Sono tornato (Luca Miniero, 2018). Nel 1994, però, il regista serbo Želimir Žilnik, con il suo film Tito per la seconda volta tra i serbi (Tito po drugi put medju Srbima, 1995), faceva un inedito esperimento sociale per testare e filmare le reazioni delle persone che incontravano il redivivo Tito, interpretato egregiamente dall’attore Mićko Ljubičić. Aleksandar Vasović di radio B-92, uno degli sponsor del film, spiegò che l’idea era nata come uno scherzo, lui e il regista erano convinti che la gente ne avrebbe riso, ma in realtà si resero conto che molte persone si comportavano come se stessero avendo a che fare con il vero Tito. Žilnik ha raccontato che a un certo punto la polizia intervenne per diradare una folla che si era riunita attorno al finto Maresciallo, vicino al quale un suonatore zingaro aveva improvvisato una vecchia canzone jugoslava. Gli agenti intimarono a lui e al cameraman di sgombrare l’area e, quando Žilnik gli disse di sollecitare anche Tito, un agente tuonò: “Lascialo stare, lui non c’entra!”.

Un breve estratto del film Tito per la seconda volta tra i serbi, sottotitoli in inglese.

Slobodan Stupar, vice-direttore di radio B-92, affermò che questo genere di reazioni rappresentavano la realtà sociale che in quel momento la Serbia stava vivendo, e cioè il fatto che la gente stesse perdendo il contatto con la realtà: “Tutto ciò che viene detto sui media viene assorbito dalle persone come fossero spugne. Finisce così che se dici che Tito è risorto la gente ci crede veramente.”

Una scena di Tito per la seconda volta tra i serbi

Oggi forse ci rendiamo conto che se Hitler o Mussolini camminano per strada certamente non sono i veri dittatori resuscitati. Eppure, per altri versi e in altri ambiti da qualche tempo sembra che sia sempre più difficile mantenere il contatto con la realtà, distinguere ciò che è vero da ciò che è palesemente falso e improbabile. Negli USA, ad esempio, questo problema è più vivo che mai oggi, infatti esiste gente disposta a credere che Barack Obama, Hilary Clinton, Tom Hanks e tanti altri politici democratici e attori hollywoodiani siano parte di una cospirazione di vampiri pedofili che vuole conquistare il mondo. Sto parlando naturalmente di QAnon e dei suoi numerosi proseliti, non solo statunitensi ma anche italiani. Per non parlare delle teorie nostrane sulle scie chimiche, i complotti giudaici guidati da Soros, la setta degli Illuminati e i rettiliani, il complotto della xylella inoculata dagli scienziati baresi per distruggere l’economia leccese (una delle varie ma più divertenti interpretazioni complottiste, basata sulla rivalità calcistica e campanilista Lecce VS Bari).

Seguace di QAnon, Getty Images

Sono davvero innumerevoli le fake news dalle quali oggi siamo bombardati, alcune di esse talmente idiote che ci fanno ridere. Eppure quando le sentiamo ripetere a pappagallo dal nostro vicino di casa o peggio dai nostri congiunti vari, come se fossero la verità assoluta, quella risata si fa amara. Nel documentario prodotto da Netflix, The Social Dilemma (Jeff Orlowski, 2020), il problema del dilagare delle fake news su internet e sui social viene fatto emergere proprio da coloro che hanno creato il sistema, che oltretutto spiegano come si stanno impegnando affinché il meccanismo del clickbaiting e di tutto ciò che a esso si lega (algoritmi basati sui like e sul numero di visualizzazioni che fungono da moltiplicatore soprattutto di notizie false e sensazionalistiche) possa un giorno essere arginato o magari modificato in meglio. Tuttavia per ora la situazione è questa e oltretutto le cose non hanno fatto altro che peggiorare a causa di questo maledetto virus che riduce sempre più gli scambi tra le persone reali, di conseguenza aumentando l’isolamento personale e amplificando le interazioni mediate dai social network e le interazioni con il mondo cibernetico. In un circolo vizioso che lega il dilagare del virus, la conseguente riduzione delle interazioni reali, l’aumentare delle interazioni cibernetiche, il crescere del malcontento per tutta la situazione di limitazioni a cui siamo sottoposti, per non parlare delle difficoltà economiche che si amplificano, il virus stesso diviene oggetto principale delle teorie del complotto, come quelle negazioniste, e quindi causa e conseguenza al contempo della nostra sempre più crescente perdita del contatto con la realtà. Cosa che peraltro in molti paesi porta la gente a scendere in strada e creare disordini sociali.

Una scena di American Horror Story-Cult, 2017

Il mix fake news e disordini politici e sociali è un problema che negli USA in questo periodo pre-elettorale è ripreso da numerosi intellettuali. A tal proposito segnalo la giornalista Janine De Giovanni che ha scritto un articolo interessante al riguardo, intitolato I Cover Civil Wars. The State of America Right Now Makes Me Anxious. Ella paragona proprio quella perdita del contatto con la realtà che, tra le altre cause, ha portato allo scoppio delle violenze fratricide nella ex Jugoslavia nel 1992, alla situazione esplosiva delle elezioni americane della prossima settimana. Un paragone senz’altro azzardato e iperbolico ma che porta a una seria e profonda riflessione.

Oggi più che mai è necessario saper discernere non tanto ciò che è vero da ciò che è falso -cosa comunque necessaria ma più ardua- ma perlomeno ciò che è reale da ciò che non lo è e che non può esserlo. È l’unico anticorpo che abbiamo per difenderci da un altro virus altrettanto pericoloso del Covid-19, cioè il virus della perdita del senso di realtà. Dovremmo fare dell’isolamento un momento di lavoro su noi stessi, staccarci dalla dipendenza dalle notizie false e dalle opinioni non richieste sui social e sui media in generale e tornare alla realtà, accettandola bella o brutta o insensata e assurda che sia, seguendo il criterio di razionalità. E a quelli che insistono sul fatto che “siamo in democrazia e quindi posso credere, dire, scrivere sui social ciò che mi pare”, opporre questa semplice ma efficace riflessione del filosofo Bernard-Henry Levy, pronunciata in un webinar dello Yale Jackson Institute For Global Affairs lunedì scorso (che vedeva anche la partecipazione dell’ex Segretario di Stato USA John Kerry): “tutte le opinioni hanno diritto di essere espresse ma non tutte le idee hanno lo stesso peso né egual valore”.

Tito po drugi put medju Srbima, Želinie Žilmik, 1995, integrale in serbo (no sottotitoli)

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